Alberto Bradanini – Gaza e l’eroismo di Aaron Bushnell

Probabilmente è il tributo più appropriato ad Aaron Bushnell scritto

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra gli incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È oggi Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea e autore di libri e saggi. Ha pubblicato “Oltre la Grande Muraglia” Ed. Bocconi 2018; “Cina, l’irresistibile ascesa”, Ed. Sandro Teti, 2022, e “Cina, dall’umanesimo di Nenni alle sfide di un mondo multipolare”, Ed. Anteo, 2023. 

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1. Con intelligenza ed empatia, l’australiana Caitlin Johnstone ci invita a meditare sugli orrori del nostro tempo, restando lontani dal megafono della propaganda e meditando sulla circostanza, da quest’ultima sistematicamente omessa, che la violenza israeliana contro i palestinesi non è certo iniziata oggi.

Negli anni 1947/48, un tempo che i palestinesi chiamano non a caso Nakba, la catastrofe, quando su una popolazione di 1,9 milioni, oltre 750.000 palestinesi furono cacciati con la violenza, mentre bande armate sioniste s’impadronivano del 78% della Palestina storica, dopo aver distrutto centinaia di villaggi e città e massacrato oltre 15.000 poveri palestinesi disarmati, che avevano provato a difendere i loro beni, le loro famiglie e la loro vita.

La Nakba è il frutto malsano dell’ideologia sionista, sviluppatasi in Europa Orientale alla fine del XIX secolo, nel cui nucleo ideologico troviamo il radicalismo politico-religioso e la pretesa che gli ebrei (nazione, razza e/o religione) avessero diritto a un proprio stato, un diritto invero estraneo a qualsiasi norma nazionale o internazionale, ma derivato esclusivamente dalle cosiddette sacre scritture, vale a dire quanto di più farfaleico si possa immaginare.

Nel 1880, la popolazione degli ebrei palestinesi non supera il 3% dei residenti. A differenza degli ebrei sionisti che sarebbero arrivati in Palestina successivamente, l’Yishuv originale non aspirava a costruire un moderno stato ebraico. A partire dal 1882, però, migliaia di ebrei iniziano a stabilirsi in Palestina, fuggendo dalle persistenti persecuzioni ai loro danni (pogrom e altro), ma anche attratti dal fascino sionista della costruzione di uno stato religioso.

Nel 1896, il giornalista viennese Theodor Herzl pubblica un opuscolo (Der Judenstaat, ovvero Lo Stato ebraico), che s’impone quale Bibbia ideologica del sionismo. Secondo costui, solo il sorgere di uno stato ebraico avrebbe protetto il suo popolo dai secolari impulsi antisemiti che serpeggiavano in Europa. A tal fine, i pionieri del movimento avevano inizialmente immaginato di occupare qualche territorio situato in Uganda, nel Sud dell’Argentina e in altre località remote, rendendosi forse conto che la scelta della Palestina sarebbe stata foriera di guai. Alla fine, prevalse invece la nozione biblicomessianica, basata sul credo primitivo di un dio che avrebbe promesso la Terra Santa al cosiddetto popolo eletto. Un’elezione, deve aggiungersi, la cui genesi resta tuttora oscura, non essendo nota la ragione per la quale quel dio avrebbe scelto una tribù relegata in un cantone ininfluente del pianeta, che nel XX secolo si sarebbe chiamato Medioriente. A tale tribù, sembra di capire, Colui avrebbe riservato un destino grandioso (al quale si può immaginare il popolo eletto avrebbe rinunciato, se avesse saputo cosa lo aspettava), mentre agli altri popoli, anch’essi presumibilmente creati dalla stessa divinità, sarebbe stato riservato un destino di seconda scelta, diciamo così. Misteri della fede!

Si arriva quindi al 1917, quando, con la Dichiarazione di Balfour – una lettera che l’allora ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, indirizza a Lionel Walter Rothschild, figura di spicco della comunità ebraica britannica – la Gran Bretagna assume l’impegno di favorire la nascita in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico“.

Il 28 ottobre 20174, Gideon Levy, prestigioso giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, sintetizza così la hybris britannica da padrone del mondo: “un impero promette una terra non sua a un popolo che non ci vive, senza chiedere il permesso a coloro che ci vivono”. “Solo facendo ricorso alla nozione di ‘arroganza barbara e colonialista’ si può qualificare il sentimento di repulsione che traspare da ciascuna parola di tale documento”.

Il progetto fu incardinato nel cosiddetto Mandato per la Palestina, conferito a Versailles al governo britannico alla dissoluzione dell’Impero Ottomano al termine della Prima guerra mondiale. In verità, il sistema dei mandati non era altro che una forma di colonialismo costruita su misura per le Grandi Potenze. Fingendo di favorire la decolonizzazione, lo scopo in realtà era quello di legittimare il trasferimento ai vincitori dei territori persi dagli sconfitti: Germania, Austria-Ungheria, Impero Ottomano e Bulgaria.

Il caso Palestina però rimane unico nel suo genere: all’implosione dell’Impero Ottomano, in attuazione dei turpi accordi tra il britannico Sykes e il francese Picot (rimasti all’epoca segreti, 1916), Parigi e Londra si spartiscono il Medio Oriente e gli inglesi mettono le mani sulla Palestina. Tra il 1922 e il 1935, con l’aiuto di questi ultimi, la popolazione ebraica passa dal 9% al 27%. La storia, se può essere non maestra di vita, dovrebbe essere almeno fonte di memoria nel mondo distopico che ci circonda.

Nel secondo dopoguerra, inizia un’altra storia, quella nota, fatta di aggressioni, depredazione di terre e apartheid. Gli Stati Uniti, corresponsabili morali e materiali delle atrocità di Gaza – insieme ai silenti paesi europei, vassalli e irrilevanti – potrebbero fermare le bombe israeliane, far ritirare le sue truppe, cessare di fornire armi, denaro e intelligence. Essi dovrebbero denunciare Israele per crimini di guerra e contro l’umanità davanti alla corte penale internazionale e alla corte internazionale di giustizia: migliaia di video e testimonianze sono di un’evidenza disarmante. Ma non lo fanno. Un giorno ne renderanno conto davanti al tribunale dell’Umanità.

2. “Mi chiamo Aaron Bushnell, sono un aviere in servizio attivo dell’Aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice di un genocidio. Sto per compiere un atto di protesta estremo ma, se paragonato a quello che la gente sta vivendo in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sia normale”.

Con queste parole Aaron Bushnell, il 25 febbraio scorso un eroico militare americano pone fine alla sua vita di fronte all’Ambasciata israeliana a Washington, per esprimere al mondo la sua ribellione contro complicità e silenzi dei potenti davanti alle continue atrocità che Israele commette ai danni della misera umanità di Gaza. Solo facendo affiorare le sfere occulte della coscienza e tacitando il frastuono intorno, è possibile penetrare almeno in parte l’immensità del gesto di questo ragazzo, un combattente il cui merito etico e umano va oltre ogni immaginazione. Egli era un uomo mite e compassionevole che guardava le stelle per provare a sfuggire dal dolore che lo opprimeva. Onore eterno a un ragazzo con un cuore scintillante di umanità, che riempie il pianeta.

È vero, è impossibile comprendere le ragioni profonde che inducono un ragazzo di 25 anni, amato e apprezzato da coloro che lo conoscevano, a preferire la morte invece della battaglia per la vita e la giustizia. Ciò detto, tale scelta merita di essere assunta a icona filosofica e umana contro l’indifferenza e il decadimento etico della cosiddetta civiltà occidentale.

Aaron Bushnell, quale militare statunitense, si vergognava di far parte di un sistema repressivo che consentiva (e tuttora consente e facilita) i massacri disumani che Israele compie contro il popolo palestinese. Il senso di colpa gli era diventato insostenibile, non voleva somigliare agli agenti della morte, quei freddi burocrati del terzo Reich che lubrificavano la macchina nazista dello sterminio del popolo ebraico. “Non sarò complice di un genocidio”, ha aggiunto con agghiacciante lucidità, mentre s’incamminava verso la morte avendo davanti agli occhi, siam pronti a scommettere, le migliaia di palestinesi, bambini inclusi, che vengono estinti ogni giorno dalla furia vendicatrice israeliana.

Un gesto individuale, quello di Aaron Bushnell, ma la sua auto-immolazione, ampiamente censurata dai media dominanti, assume tuttavia uno straordinario significato corale, in un momento drammatico della storia dell’umanità. Egli richiama alla memoria molti altri che come lui hanno sacrificato la vita per il medesimo orrore: tra di essi, il monaco buddista Thích Quảng Đức (Vietnam, 1963) e di Mohamed Bouazizi, il giovane fruttivendolo tunisino che nel 2010 col suo sacrificio accende la miccia della primavera araba.

Nel 1965, il grande giornalista americano, Daniel Ellsberg, vide Norman Morrison, un ragazzo di 22 anni, cospargersi di cherosene davanti all’ufficio del Segretario alla Difesa R. McNamara, per protesta contro l’insensata guerra del Vietnam. Secondo Ellsberg, quelle fiamme accesero la miccia della protesta in tutto il paese e contribuirono alla pubblicazione dei Pentagon Papers5, dai quali emersero le responsabilità degli Usa in quel conflitto: da quel momento la propaganda a favore della guerra iniziò a vacillare.

Il sacerdote cattolico, Daniel Berrigan, tornato dal Vietnam con una delegazione di pace, visita in ospedale Ronald Brazee, uno studente che si era cosparso di benzina davanti alla Cattedrale di Syracuse (Stato di New York), sempre per protesta contro la guerra. “era ancora vivo un mese dopo”, scrive Berrigan, “e l’odore della carne bruciata era lo stesso che avevo avvertito in Vietnam. Quel ragazzo stava morendo in preda ai tormenti, come un pezzo di carne sulla griglia. Avevo i sensi invasi dall’angoscia più profonda. Percepivo il potere della morte nel mondo che si stava diffondendo nella Terra dei Bambini Bruciati. Sono andato a Catonsville come ad Hanoi”. Il 17 maggio 1968, Berrigan e altri otto attivisti fanno irruzione in un ufficio di reclutamento, s’impadroniscono dei dossier e li bruciano con il napalm fabbricato a casa. Berrigan viene condannato a tre anni di detenzione.

Nel 1969, Jan Palach sale sui gradini del Teatro di Piazza Venceslao, si cosparge di benzina e muore dopo tre giorni. Nella lettera di commiato, afferma che quel gesto era il solo modo per protestare contro l’invasione sovietica. Il corteo funebre viene interrotto dalla polizia. Poiché sulla sua tomba si tenevano continue veglie a lume di candela, le autorità provano a cancellarne la memoria, fanno riesumare il corpo, lo cremano e ne consegnano le ceneri alla madre. Nell’inverno 1989, i manifesti di Jan Palach coprirono tutti i muri di Praga. La sua morte, avvenuta vent’anni prima, è ricordata come l’atto supremo di resistenza contro il rovesciamento di Alexander Dubček. Oggi, quel luogo si chiama piazza Jan Palach: egli ha vinto.

Un giorno, se lo stato corporativo Usa e quello israeliano di apartheid saranno smantellati, la strada in cui Bushnell si è dato fuoco porterà il suo nome. I palestinesi, oggi traditi dal mondo, guardano a lui come a un faro di luce. Il suo nome è già scolpito sul cammino della storia. Non siamo messianici, i morti possono aspettare, vediamo di conoscere gli eventi, ma abbiamo intuizione che il suo sacrificio non è stato inutile. Esso scuote dalla sonnolenza il cittadino disattento, imbarazza l’osservatore cinico, costringe ciascuno a rivedere la sua banale ermeneutica, spinge i pavidi ad agire. Nella pratica degli antichi greci e romani, l’immolazione era il rito di cospargere sulla vittima sacrificale sale e farro macinato. L’auto-immolazione di Aaron collega il sacro e il profano, ma per giungere a tanto ha dovuto aggiungervi quell’ingrediente che il teologo Reinhold Niebuhr chiama la sublime follia dell’anima, una delle poche armi a disposizione degli oppressi.

Mentre grida Palestina libera e il suo corpo brucia, Aaron partecipa all’essenza della vita, quella di tutta la razza umana, secondo un rituale religioso nella sua etica più eccelsa.

Bouazizi era umiliato e depresso perché le arroganti autorità tunisine gli avevano confiscato le bilance e i poveri prodotti che vendeva per vivere, ma non aveva in mente di iniziare una rivoluzione. Le ingiustizie che subiva, tuttavia, hanno avviato una reazione a catena, risuonando negli interstizi di una popolazione sofferente. Bruciare è un modo di morire tra i più terribili, ma anche tra i più temuti. Così agisce la storia.

Walter Benjamin aveva due amici, Fritz Heinle e Rika Seligson. Entrambi si tolsero la vita nel 1914 per protesta contro il militarismo tedesco e la guerra mondiale. In “Critica della violenza“, egli esamina gli individui che si oppongono al male radicale con atti estremi, e giunge alla conclusione che questi obbediscono ai canoni superiori della giustizia morale e della dignità umana. Solo l’amore dei disperati ci consente di recuperare la speranza, conclude Benjamin.

Con il suo esempio, il martire consente a un’idea di passare alla storia, indebolisce la narrativa del potere e rende inquiete le coscienze. Gli oppressori non perdono per questo il sonno, eppure farebbero bene a chiudere la porta a doppia mandata. Se si possono perdonare i carnefici, non bisogna però dimenticare i loro nomi, suggerisce il filosofo.

Caro Aaron, insieme al tuo corpo la macchina del potere ha inteso seppellire anche la tua memoria. Per loro sei stato null’altro che una notizia fugace, obbligata e fastidiosa, un uomo avvolto nella depressione e forse nel narcisismo, in cerca di una gloria tragica ed effimera. Ma non è così. Per il resto del mondo e per la storia, tu hai titolo per essere accolto nell’Olimpo della nobiltà e dell’eroismo. Fratello Aaron, figlio di quell’umanità che ci spinge a osservare con le lacrime agli occhi i misteri dell’universo insieme alla crudeltà degli umani, puoi starne certo, ovunque tu sia, che mai potremo dimenticarti.

A causa dei crimini di guerra israeliani a Gaza, abbiamo aumentato la nostra copertura da cinque a sei giorni alla settimana. Non abbiamo i fondi per farlo, ma abbiamo ritenuto che fosse l’unica cosa giusta da fare. Se non avete ancora fatto una donazione per quest’anno, fatela ora. Per fare una donazione andate QUI.

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